Delle 19 vittime dell’attentato del 13 marzo sulla spiaggia di Grand-Bassam in Cote D’Ivoire, sette erano giovani ivoriani (dai 16 ai 33 anni), tre militari membri delle forze speciali, quattro francesi (dai 53 a i 75 anni), tutti residenti nel paese da almeno tre decenni; un libanese nato nel paese; un giovane nigeriano; una funzionaria di nazionalità macedone in servizio presso la missione delle Nazioni Unite (ONUCI); una signora tedesca, direttrice dell’Istituto Goethe. Nessun turista; nessun personaggio “importante”. Ciò significa che gli assalitori, di cui tre identificati con nomi di battaglia che rimanderebbero a origini saheliane, non sono riusciti a penetrare negli hotel di lusso, ove si trovava fra l’altro anche l’Ambasciatore americano e addirittura, in un hotel di una località poco distante, pare fosse il Presidente Alassane Ouattara col suo seguito.
Un insuccesso? No perché con tutta evidenza si è trattato di un’operazione che aveva l’intenzione di dare un avvertimento al governo della Cote D’Ivoire, stretto alleato della Francia sia sul versante degli affari, sia come bastione della strategia militare di controllo securitario e di lotta contro la rete di molteplici formazioni jihadiste che agiscono dal Mali al Ciad. Regione, questa, vastissima in cui gli intrecci fra movimenti salafisti, gruppi jihadisti di lotta armata contro i poteri “asserviti ai crociati francesi”, o più genericamente all’imperialismo occidentale, e bande criminali, alternativamente si alleano e si combattono per il controllo di uomini e donne e delle vie del commercio trans-saheliano, in cui le merci di pregio sono la droga, le armi e gli esseri umani. L’attacco significa che, superato il limes del Sahel, l’uno o l’altro movimento dissidente di matrice religiosa, e/o criminale può colpire il cuore della France-Afrique nel suo più pregiato pré-carré, il dominio francese, riserva di caccia esclusiva della Francia e di qui arrivare a minacciare le regioni costiere.
Fra le varie motivazioni che spinsero Sarkozy a attaccare Gheddafi nel 2011, fu l’estendersi dell’influenza di investimenti e finanziamenti libici ai regimi da sempre facenti parte del pré-carre francese. La seduzione libica rischiava di mettere a repentaglio la politica e gli affari francesi nella regione, e già era un elemento di allarme nella misura in cui interveniva sia nell’appoggiare regimi autocratici che nel Rais potevano trovare un alleato per rimandare o resistere a riforme che rafforzassero processi di maggiore democratizzazione. Gheddafi inoltre non nascondeva la sua ambizione di intervenire con maggiore forza in tutti i contesti africani. Finanziava e teneva alla sua corte svariati movimenti dissidenti, tutti con le proprie agende politiche; sosteneva che in Africa non esistevano stati-nazione, ma solo “tribù” e finanziava capi tribali da nord a sud. Paesi dell’importanza di Nigeria e Uganda si misero a capo della manovra che nel 2010 negò a Gheddafi l’elezione al secondo mandato alla presidenza dell’Unione Africana dell’autoproclamatosi “Re dei re tradizionali in Africa”.
Era prevedibile (ma non fu previsto dai raffinati esperti di geopolitica che considerano l’Africa sub-sahariana un vuoto irrilevante) che la caduta di Gheddafi avrebbe inevitabilmente aperto il vaso di pandora delle dissidenze armate, che dall’esilio libico in cui erano finanziate, ma anche controllate, si sarebbero riversate nei paesi della regione partendo dal “buco nero” del sud libico, vera e propria miniera di armi, a riaccendere antichi conflitti, e a accenderne di nuovi. E il primo paese a essere colpito è stato il Mali, col ritorno di fazioni Tuareg indipendentiste, che in armi alleandosi a gruppi jihadisti già operanti sul territorio dell’immenso nord, hanno riacceso il contenzioso del mal digerito, sempre contestato e mal applicato trattato di pace del 1992 fra governo e nazionalisti dell’Azawad. Nel Nord immenso, asimmetrico, non controllabile e non controllato da un governo e da un esercito indeboliti da malgoverno e corruzione, lo scontro si intreccia e si complica con le agende, spesso in contrapposizione, dei vari gruppi salafisti e jihadisti armati che mietono alleati fra vecchi leader politici e fazioni nazionaliste dell’Azawad, fra intellettuali di origine tuareg e araba che inevitabilmente attraggono giovani traditi nelle loro speranze di emancipazione.
Dal Mali, non pacificato dalle elezioni appoggiate dal dispiegarsi di un’operazione militare che coinvolge Francia, paesi africani e Nazioni unite, e tanto meno ricomposto, si dipartono oggi tutti i movimenti jhiadisti, che da ultimo di sono collegati a ovest con Boko Haram, ultimo erede dello storico fiume sotterraneo, periodicamente risorgente, di radicalismo islamico incentrato nel Nord della Nigeria e oggi in particolare nel quadrivio che collega Nigeria nord-orientale, Camerun, Niger e Ciad.
E mentre si continua a sostenere che le infiltrazioni di movimenti jihadisti e l’adesione al salafismo armato in Cote D’Ivoire non esiste, di fatto si sa, da testimonianze di abitanti di Timbuctu e Gao, della presenza in Mali, fra i jihadisti, di elementi di nazionalità ivoriana. Autorevoli fonti governative ivoriane, tra cui il Procuratore della Repubblica, hanno di recente rivelato che già altri attentati sono stati sventati e hanno riconosciuto che questo perpetrato a Grand Bassam non sarebbe stato possibile senza complicità interne. Quali non sarà facile individuare, vista la complessa galassia di gruppi para-polizieschi e para-militari ufficiali e ufficiosi che si confrontano per il controllo dei quartieri non solo della capitale Abidjan (una metropoli cosmopolita di oltre 4 milioni di abitanti, in un paese di soli 19 milioni, di diversa provenienza regionale interna e con un alto tasso di immigrati antichi e recenti, arrivati da tutti i paesi saheliani).
L’attacco a Grand Bassam porterebbe la firma d’uno dei più temibili professionisti del terrore nella regione che ha sempre agito sposando jihadismo e criminalità comune. Il condizionale è d’obbligo perché non vi è certezza alcuna se l’attentato terroristico sia veramente opera di Al Mourabitoun, dell’ormai leggendario Belmoktar, detto il “guercio”, di cui non si sa se sia vivo o morto. O se lo stesso gruppo sia ritenuto responsabile per analogia con quanto avvenuto di recente a Bamako e a Ouagadougou. Quel che è certo è che i più recenti attentati rivelano un mutamento di strategia. Al Mourabitoun, cosi come altri gruppi compreso Boko Haram, sembra stiano evitando di confrontarsi coi militari, per ripiegare su ben più facili prede civili senza distinzione di razza, etnia, religione, classe sociale e con questo conquistare visibilità internazionale. Si ipotizza che l’operazione militare a vasto raggio guidata dai francesi, con il forte delle truppe provenienti dal Ciad, e col contributo di tutti i paesi saheliani, pur non riuscendo a debellare i movimenti jihadisti li abbia comunque messi in difficoltà. E dunque per mantenersi visibili questi, ogni volta che si verifica una falla nella rete di sicurezza, vanno a colpire inermi cittadini per poi sparire nella folla, nel labirinto di molteplici, inafferrabili complicità locali. Anche Boko Haram sembra da ultimo essere in difficoltà e lo dimostra il suo palesarsi quasi esclusivamente con attentati in cui adolescenti e, soprattutto bambine, drogati o scelti fra deboli mentali, sono indotti o costretti a farsi esplodere in mezzo alla folla.
I mandanti dei giovani terroristi di Grand Bassam sembrerebbero conoscere bene la storia e la politica regionale e certamente hanno saputo usarla per ottenere il massimo di visibilità interna e internazionale. Grand Bassam è un centro di alberghi di lusso, in cui si incontrano imprenditori e funzionari internazionali, qui si svolgono le feste della nomenclatura, qui si incontra durante i week-end la numerosa comunità di espatriati. E Grand Bassam, ha un significato storico e simbolico: qui all’inizio del XIX secolo s’insediava la prima colonia francese, al centro e allo sbocco di una regione caratterizzata da un’estesa e ricca rete di transazioni con l’entroterra (di cui uno dei prodotti principali era l’oro), da uno sviluppo incentivato da consistenti movimenti migratori e, fino all’insediamento francese, controllata da élite mercantili locali che già alla metà del XVIII secolo avevano trasformato la città medievale in una vera e propria metropoli commerciale.
Grand Bassam è dunque la rappresentazione di tutto ciò che i jihadisti considerano empio e vogliono distruggere. Inoltre la Cote d’Ivoire è diventata, nel corso della sua storia coloniale e dopo l’indipendenza, il paese economicamente più importante di tutta l’Africa occidentale francofona. Qui è la chiave di volta per l’accesso e la valorizzazione economica dei paesi saheliani senza accesso al mare. Paesi saheliani che hanno subito pesantemente le ricadute della destabilizzazione che seguì la morte del suo padre-padrone e primo e solo Presidente dal 1960 fino alla sua morte nel 1993, Felix Houphouet-Boigny, seguita da un periodo di destabilizzazione e infine da una violenta guerra civile (2002-2011), dalla divisione del paese e dalla sua recente ricomposizione sotto la presidenza di Alassane Ouattara.
L’attacco avviene poi proprio immediatamente prima dell’inizio ad Algeri del Quinto round del Dialogo inter-maliano, sotto l’egida del governo algerino, che dovrebbe mettere fine alla crisi nel Nord del Mali. Al dialogo partecipano i rappresentanti dei governi della regione saheliana, l’Unione Africana, la Cedeao, l’Organizzazione della Conferenza Islamica, l’Unione Europea e le Nazioni Unite. Vi partecipano inoltre i rappresentanti dei sei movimenti dissidenti: il Movimento Arabo dell’Azawad (MAA); il Coordinamento per il Popolo dell’Azawad (CPA); il Coordinamento dei Movimenti e Fronti Patriottici di Resistenza (CM-FPR); il Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad (MNLA); l’Alto Consiglio per l’Unità dell’Azawad (HCUA); e il Movimento Arabo dell’Azawad (dissidente). I negoziati incentrati sulla priorità di ricostruire e affermare l'integrità territoriale del Mali si trascinano faticosamente dal 2013.
Avviene quando si sta svolgendo all’Aia il processo contro l’ex presidente Gbagbo, accusato coi suoi seguaci di crimini contro l’umanità nel periodo della guerra civile. Quando malgrado le difficoltà e i conflitti irrisolti sembrava che il governo dei tecnocrati che circondano Alassane Ouattara potesse cominciare a funzionare facendo leva sull’esigenza primaria di garantire l’unità nazionale per rilanciare la crescita economica. Alassane Ouattara sembra volersi legittimare nel ruolo che fu di Felix Houphouet Boigny, l’abilissimo stratega dell’indipendenza, principale alleato della Francia in Africa, perno e difensore della France-Afrique, fautore dell’economia di mercato. La Cote d’Ivoire, fino alla fine degli anni ’70, ottenne tassi di crescita elevati a vantaggio sia degli investimenti francesi, sia delle classi imprenditoriali ivoriane, che permisero anche di consolidare, negli anni ’70, un consenso promosso da misure di redistribuzione sociale fra regioni e componenti etniche. Un successo di crescita produttiva che si fondava sulla messa a valore, via l’incentivazione di emigrazione verso le fertili regioni del sud, delle produzioni di cacao e caffè. Nei primi decenni dell’indipendenza si incentivò quella che era una tradizionale emigrazione storica dalle più povere regioni del Nord, sia di “immigrati” interni, sia dai paesi saheliani.
Quando a fine anni ’70 la crisi economica colpisce, l’asimmetria di accesso alle risorse delle diverse componenti regionali, e dunque etniche, contribuisce a far esplodere violentemente la questione immigrazione che produce il frutto avvelenato della radicalizzazione dell’ideologia nativista dell’ivoirité. I primi a essere colpiti, esclusi, cacciati, massacrati saranno i cosiddetti Burkinabé, o Dioula, individuati non più come cittadini, ma come stranieri, perché appartenenti a etnie non “autoctone”. Nelle sue forme più estreme l’ivoirité si tradusse in delegittimazione che giustificò la violenza non solo di nuovi o recenti immigrati, ma di messa in discussione della cittadinanza di cittadini di diritto, riconosciuti come tali nel contesto del moderno stato indipendente.
L’attacco è un avvertimento al Presidente Alassane Ouattara, eletto di recente per un secondo mandato, la cui cittadinanza, e dunque il diritto a partecipare alle elezioni, venne a suo tempo contestata. Viene in un momento in cui la situazione di sicurezza interna e regionale, vedasi la caduta e l’esilio in Cote d’Ivoire, del Presidente del Burkina Faso Blaise Compaoré, e la problematica e traumatica transizione del Burkina-Faso, sta mostrando tutta la sua problematica fragilità: di normalizzazione senza sicurezza, causata dalla ancora precaria e controversa riconciliazione in un paese in cui le relazioni sociali e politiche, prima e soprattutto durante la guerra civile, sono state profondamente stravolte dalla militarizzazione delle lotte politiche e attorno al conflitto sulla questione della cittadinanza.
A livello regionale poi, per accennare solo ai due paesi attaccati più di recente, nel Mali, malgrado il dispiegamento di forze, la ricomposizione dell’unità nazionale è ancora lontana e i movimenti Jihadisti sono lungi dall’essere contenuti per non dire sconfitti. In Burkina Faso la “primavera” che sembrava aver vinto riuscendo a spazzare via il regime del coriaceo Compaoré (ospite ora dell’amico Ouattara), scopre quanto la transizione a un regime democratico sia un percorso ad ostacoli, seminato di trappole.
Se è vero che in Cote D’Ivoire l’islam istituzionale non ha aderito a predicazioni di salafismo purista, e anzi si è sempre inteso col potere quale che fosse, è altrettanto vero che non si può trascurare di considerare la storicità dell’attuale congiuntura che vede l’intera regione investita da correnti palesi e sotterranee di dissidenza di matrice religiosa (non solo islamica, ma anche delle pentecostali chiese del risveglio), che nella situazione precaria di masse giovanili diseredate e arrabbiate può prestarsi a ogni sorta di strumentalizzazione.
Anna Maria Gentili, 21 marzo 2016
Per saperne di più:
Opération Barkhane, Ministère de la Défense (France), 30 novembre 2015
Sviluppi e limiti dell’operazione Barkhane, Francesco Palmas, in Enduring freedom, 22 giugno 2015
Modernity, autochthony and the Ivorian nation: the end of a century in Côte d’Ivoire, Armando Cutolo, in Africa Africa: The Journal of the International African Institute
Volume 80, N. 4, 2010, pp. 527-552
Côte d'Ivoire : 10 ans de crise, 02 novembre 2010
Côte d'Ivoire: Socio-political Crises, 'Ivoirité' and the Course of History, Francis Akindès, African Sociological Review, Vol. 7, n. 2 (2003), pp. 11-28
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